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Strade del vino e dei prodotti tipici

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Parlare di vitigni per l’Isola d’Ischia è confrontarsi con uno degli argomenti più discussi e controversi della storia della vitivinicoltura del Mediterraneo. Infatti, se è vero che Ischia è il “luogo” per eccellenza per la storia della coltivazione della vite in Italia, deve essere anche vero che su di essa nel corso dei secoli siano state fatte tantissime esperienze di uomini e tecniche che non possono non aver contemplato anche la circolazione di materiale genetico, il più diverso possibile per origine e caratteristiche. Dove c’è uomo/artigiano istruito ad una pratica c’è inevitabilmente anche desiderio di superare i confini della “conoscenza” sperimentando, osando, studiando.

E come tutti sappiamo Ischia costituisce un paradigma della conoscenza viticola italiana ed allo stesso tempo un paradosso. Un paradigma perché ancora oggi restano quasi inalterate tracce della cultura etrusca e greca per quanto riguarda il modo di coltivare e gestire la vigna, un paradosso perché di tanta cultura oggi si rischia di perdere le tracce a causa di una marginalizzazione sempre più grave della viticoltura stessa.
Alcuni dati possono essere chiarificatori.
D’Ascia riporta nel 1867 che ad Ischia si coltivavano moltissime varietà fra le quali Agrilla, Biancolella, Catalanesca, Codacavallo, Coglionara, Fragola, Lentisco, Lugliese, Malvasia, Moscatella, Nocella, Pane, Sanfilippo, Sorbisgno, Zibibbo. Monaco, nel suo Atlante delle varietà di vite dell’Isola d’Ischia del 2008, riporta anche che tra queste solo Codacavallo e Sorbigno sono le più antiche comparendo nell’opera di Iasolino del 1588. Alcune, quali Catalanesca, Fragola, Lugliese, Malvasia, Moscatella, Nocella, Pane, Zibibbo sono comuni ad altre zone dell’entroterra campano e verosimilmente sarebbero state introdotte sull’isola in seguito alla comparsa dell’oidio del 1850. Nel 1884 Nesbitt riporta la coltivazione di diverse varietà fra cui compariva per la prima volta la Forestiera, poi chiamata Forastera, oltre a Verdesca, Coglionara, Uvanta, Coda di cavallo, Campotese, Montonico, Agrilla, con la sua variante selvatica, Verdiscone, Procidana, Catalanesca, Malvasia e Moscato.
Oggi molte di queste non sono più coltivate né rintracciabili in vigneti storici, mentre altre hanno preso piede come, oltre a Biancolella e Forastera considerate oggi le regine della viticoltura isolana, Don Lunardo, Romana, Procidana, Uva Chiena, Arilla, Coglionara, queste ultime, per la verità quasi da considerarsi reliquie.
Tra le diverse aree di coltivazione, inoltre, molte di queste varietà sono denominate con nomi diversi ed in taluni casi varietà diverse con nomi identici. Da un punto di vista storico ciò senza dubbio sta a dimostrare che alcune varietà si sono talmente radicate sul territorio da assumere nomi legati spesso alla zona di coltivazione, come Campotese, ma al contempo che la viticoltura isolana è un’attività poco “aggiornata” se restano tanti casi di confusione irrisolta, come l’Arilla che sarebbe un nome dato a varietà diverse in funzione che la si chiami a Monte Corvo oppure a Campagnano, come riporta sempre Monaco (op.cit.).
Un altro dato oggettivo è importante ricordare: nel 1943 Acquaviva riporta una viticoltura isolana estesa per 2393 ettari, nel 1962 D’Ambra rileva una contrazione a 2253 ettari ma il Censimento del 1990 indica solo 900 ha per arrivare a quello del 2000 che testimonia la marginalizzazione di cui sopra con soli 306 ettari di vigneti, baluardi verso l’abbandono oggi forse messo in discussione dall’impegno di pochi ma attenti vignaioli.
Inevitabilmente, il numero di varietà coltivate, con relativa diffusione, conoscenza e valorizzazione, e livello di viticoltura, intesa per estensione, specializzazione e qualità vanno di pari passo e quindi non deve sorprendere l’erosione varietale prima riportata unitamente alla confusione circa il presente coltivato.
Per dirla tutta, i vincoli legislativi delle Denominazioni di Origine contribuiscono a questo continuo impoverimento della base genetica isolana poiché per legge è possibile coltivare solo varietà riconosciute tali e quindi molte di quelle ancora presenti in viticoltura promiscua sono da considerarsi delle vere eccezioni non potendo fregiarsi della DOC Ischia.
La tendenza del mercato degli anni 80 e 90 di valorizzare i vini da monovitigno a discapito della valorizzazione del territorio di produzione ha senz’altro contribuito allo stato attuale, rilevato proprio da Monaco nel suo Atlante delle varietà dell’Isola d’Ischia (op. cit.). L’opera, promossa e finanziata dal Comune di Forio in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli Federico II, costituisce oggi un punto di arrivo ma al contempo, ci auguriamo, di partenza per una riflessione attenta su un progetto di viticoltura rivolto al futuro. E’ opinione condivisa, infatti, che se da una parte il patrimonio genetico costituisca un valore inestimabile della ricchezza della viticoltura attuale e futura, dall’altra non possa essere considerato l’unico mezzo attraverso il quale pensare al domani. La circolazione varietale non può e non dovrebbe essere limitata, costituendo una fonte irrinunciabile di variabilità e diversità della quale da sempre l’uomo è stato soggetto attivo: con questo scopo la ricchezza genetica andrebbe considerata più come risorsa che non come patrimonio. La stessa Isola d’Ischia, allora, per rinnovarsi dovrebbe sperimentare il suo possibile futuro attraverso un’analisi attenta dei flussi varietali in entrata ed in uscita, evitando il rischio di considerare statico ciò che statico non è mai stato, così come abbiamo tentato di esporre in queste poche righe.
L’Isola d’Ischia, quindi, si trova a dover affrontare dal punto di vista viticolo una situazione erosiva che per essere invertita non può basarsi sulla considerazione acritica di ciò che oggi è coltivato come un valore predeterminato ma esporsi ad un rapporto dinamico, come sempre è stato nei secoli, con il resto del mondo, favorendo scambi e studi al fine di ridisegnare, se possibile, il senso e l’utilità stessa della viticoltura isolana. Senza dubbio questa dovrà sempre più basare sulla ricchezza varietale l’interpretazione della sua variabilità ambientale, ma dal punto di vista della comunicazione lasciare al nome di Ischia il compito di ri/creare la consapevolezza che l’Isola è tesoro inestimabile di terra, mare ed uomini.

 

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